LEGGE GELMINI
"Se passa questa riforma
università ridotte come le Asl"
La rivolta dei ricercatori è solo uno dei punti critici. Alcuni tra i più autorevoli scienziati italiani puntano il dito anche sul sistema di governo prefigurato e avvertono: "Non si premia affatto il merito"
di CARLO CLERICETTIROMA - "Vuole sapere qual è il rischio più grosso? Che le nostre università diventino tante Asl, guidate da Consigli di amministrazione in cui vengono paracadutati politici e funzionari di partito". Paola Potestio è professore ordinario a Roma Tre e insieme ad altri colleghi ha scritto una lettera aperta 1 a Berlusconi e al ministro Gelmini per chiedere che su alcuni punti critici ci sia un ripensamento. Alcuni dei docenti che hanno firmato la lettera fanno parte del "Gruppo 2003", che riunisce i ricercatori italiani con il maggior numero di citazioni nelle riviste scientifiche internazionali. Tra le firme ci sono tra gli altri l'economista Michele Salvati e Giorgio Parisi, il padre della "teoria del caos", uno dei fisici più autorevoli nel mondo.
Delle Asl, per giunta, piene di precari, denuncia Rita Foresi, presidente del corso di laurea in Informatica per il management e Scienze di Internet dell'Università di Bologna. "Basti dire che dovranno andare in pensione cinque ordinari per poterne prendere uno in sostituzione e il 60% del budget costituito dai loro stipendi dovrà essere obbligatoriamente impiegato per assumere i ricercatori "a termine", quelli che potranno avere solo due contratti da 3 anni ciascuno".
Le cronache di questi giorni sono piene delle notizie sull'agitazione degli attuali ricercatori, la categoria più penalizzata dalla riforma in gestazione. Ma se si parla con i docenti di varie università e di diversi orientamenti politici si scopre che non c'è solo questo aspetto della riforma che viene considerato critico. Per chi non fosse esperto dell'attuale organizzazione accademica ricordiamo che attualmente esistono i professori ordinari, gli associati e i ricercatori, il cui ruolo è da sempre assai equivoco. Teoricamente, come dice il nome, dovrebbero essere lì per fare ricerca, ma di fatto sono ampiamente impiegati nella didattica, tanto che se l'astensione che hanno proclamato per protesta non rientrerà, l'attività di moltissime università ne resterà praticamente paralizzata.
Perché questa protesta? Il loro, già dai tempi del ministero Moratti, è stato dichiarato "ruolo ad esaurimento", anche se nel frattempo si è continuato ad inserirli. Ora la riforma Gelmini prevede che vengano reclutati con contratti di 3 anni, rinnovabili solo per altri 3. Dopo di che, o vincono un concorso da professore associato o se ne vanno a casa. Ma dovranno contendersi i posti da associato, che certo non basteranno per tutti, con gli attuali ricercatori. Così le commissioni si troveranno a dover scegliere se mandare a casa giovani studiosi che da sei anni lavorano nell'università o frustrare le legittime aspirazioni di chi magari nell'università lavora da una ventina d'anni (l'attuale età media dei quasi 21.000 ricercatori italiani è tra i 50 e i 55 anni).
"La transizione così com'è stata pensata creerà problemi enormi per parecchio tempo", osserva Claudio Crocesi, ordinario alla Sapienza di Roma e tra i più autorevoli algebristi italiani. "Ci vorrebbe un po' di memoria storica per ricordare quali e quante tensioni generò la vicenda degli "incaricati" negli anni '70. Qui si vuol mettere tutti in un listone di precari. Premiare il merito è essenziale, ma non è questo il modo".
Sono moltissimi i professori di prima e seconda fascia (cioè ordinari ed associati) che solidarizzano con i ricercatori. Un documento in proposito 2 ha già raccolto più di 1.800 firme e in queste ore continuano ad aumentare. "Ma il problema dei ricercatori è solo uno dei punti sbagliati della riforma", dice ancora Rita Foresi. "Molti di noi lo hanno scelto come punto di attacco perché è comunque un problema cruciale. Se si spingono i giovani migliori ad andare all'estero si fa un danno enorme, si rinuncia a competenze che richiedono 30 anni per essere ricostituite. Quando cadde il sistema sovietico quasi tutti i matematici di Mosca se ne andarono a Chicago. E noi ancora oggi vediamo che da Mosca in quel campo non arriva più nulla".
Ma almeno altrettanto critico, a quanto pare, viene ritenuto il problema della "governance" delle università. "Se vogliamo sintetizzare un po' rozzamente - osserva l'economista della Sapienza Maurizio Franzini - potremmo tradurre con un "fa tutto il Rettore", il che naturalmente è impossibile. Non si individua chi deve fare che cosa". "Non solo c'è un ulteriore aumento dei poteri del Rettore, già enormemente cresciuto con l'autonomia universitaria", rincara Paola Potestio. "Viene in pratica del tutto esautorato il Senato accademico, il cui compito si dovrà limitare a fornire "proposte e pareri". Il potere decisionale è tutto in capo al Consiglio di amministrazione, in cui per giunta ci saranno questi membri esterni non si sa bene come e da chi nominati".
"Il principio non sarebbe sbagliato", osserva Roberto Perotti della Bocconi di Milano. "L'intenzione era quella di inserire delle persone più adatte a controllare l'amministrazione, visto che non mancano casi di università che da questo punto di vista sono state gestite in modo disastroso. Però - ammette - in effetti il rischio di fare come per Asl c'è".
"Al contrario di ciò che si sta facendo, bisogna ridimensionare il potere centrale", propone Paola Potestio, "e dare invece maggiore autonomia e potere ai Dipartimenti, che sono i luoghi dove si fa la ricerca. Devono essere loro gli interlocutori diretti del ministero per la distribuzione degli incentivi legati alla ricerca. E bisogna lasciare agli Statuti di ateneo la decisione sulla formazione dei Cda". E conclude con una frase ripetuta da quasi tutti gli altri interlocutori: "Questa riforma non premia affatto il merito".
continua la lettura su http://www.repubblica.it/economia/2010/07/06/news/se_passa_questa_riforma_universit_ridotte_come_le_asl-5430987/?ref=HREC1-2
(06 luglio 2010)
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